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LA BIMBA CHE ASPETTA PDF Stampa

 

 

 

La Bimba che aspetta tra storia e leggenda:
un’icona dell’immaginario popolare viareggino

Riccardo Mazzoni  

 
 

“C’è una figura di marmo, seduta sul limitare di una tomba.

Fu quello il nostro primo incontro con il fascino dell’ignoto”

 (Egisto Malfatti)

     Una delle più radicate e struggenti tradizioni popolari viareggine vuole che il giorno dei morti i bambini vengano accompagnati all’interno del complesso cimiteriale lungo un itinerario che prevede come meta privilegiata la visita al presepe meccanico del cimitero, costruito nel 1923 dall’allora direttore e cappellano padre Roberto Domenici, e alla statua funeraria della Bimba che aspetta – così chiamata perché raffigurata in attesa della madre ormai morta – che adorna l’edicola metallica della famiglia Barsanti-Beretta, edificata nel 1895 lungo l’antico muro di cinta a meridione confinante con il cimitero ebraico; la statua, che coniuga efficacemente stile realistico e valenze simboliche, costituisce anche un interessante caso di cristallizzazione nell’immaginario collettivo di motivi culturali filtrati dalla tradizione orale.

     L’esperienza della visita rituale al presepe e alla statua è stata ben rievocata dalla poetessa e scrittrice Dide (Haydée Lazzeri) nel suo libro di ricordi Pasticche e pastocche, edito da Mauro Baroni nel 2003. Una visita scandita da voci e storie che spesso assumevano l’alone della leggenda e nei bambini stimolavano curiosità e simpatia per la piccola amica di marmo suscitando però anche trasalimenti affettivi e paure di abbandono. “Il cimitero. Per me non è mai stato unicamente una sosta di dolore e di riconciliazione. E’ anche la ricerca dell’immagine gioiosa di una bimba dalla bocca spalancata dallo stupore – Bocca a lampreda, diceva la nonna – di fronte ai meccanismi magici del Presepe Animato. Ecco l’angelo che suona il violino e i pastori che suonano il flauto, il calzolaio e l’arrotino, i taglialegna e gli zappatori. E le ruote del mulino ad acqua che sembra vero, e le luci delle capanne lontane, lontane, lassù, sulle montagne. E le vesti splendenti e svolazzanti dei Re Magi, perché di stoffa vera si tratta, di sete e broccati francesi. Ma il cimitero è anche la ricerca dell’immagine di un’altra me stessa bambina, non più gioiosa ma terrorizzata di fronte alla statua di marmo di una sua coetanea. Paolina, mi sembra, si chiamava. Vicina al Presepe Animato, in fondo al cimitero comunale, c’è ancora una graziosa cappella liberty.


La sua eleganza e intimità contrastano con la monumentalità pretenziosa e fredda delle più lussuose cappelle confinanti. Per accedere al suo ingresso ci sono quattro scalini di marmo bianco. Seduta su uno di essi c’è la statua – così raccontavano – di Paolina. Il braccio sinistro, che poggia col gomito sul ginocchio leggermente rialzato, è piegato a sorreggere il mento col palmo della mano. Il braccio destro è disteso lungo il vestito e la mano stringe una ghirlanda di fiori. I bei capelli inanellati sono legati da un nastro che forma un fiocco sulla sommità del capo, reclinato in avanti. Mi colpivano, allora, le pieghe sinuose del vestito lungo fino ai piedi, ricoperto da una piccola mantella dal collettino smerlato. S’intravedevano le scarpette a punta. La bimba Paolina – così recitava la leggenda – era diventata di marmo per aver atteso giorni e notti, al freddo, il ritorno a casa della mamma morta. Sanno, gli adulti, che le fantasie di morte e le paure dei bambini sono alimentate dalle loro stesse parole? Per me, che avevo atteso per più di un anno il ritorno della mamma dalla Sardegna, la bimba di marmo era la materializzazione inconsapevole della mia paura di abbandono e di morte. L’immagine paurosa è svanita da lungo tempo, ormai. Paolina è soltanto un angelo benefico di guardia alla cappella.

    L’edicola e la statua sono così descritte in un articolo apparso sul settimanale “La Burlamacca” del 3 novembre 1895, firmato “Esse” (presumibilmente il giornalista e scrittore Enrico Sisco, tra i principali redattori del giornale): “Meritevole di osservazione è la nuova edicola in ferro con pareti di cristallo, su basamento di marmo, che “la pietà della famiglia riunita” ha eretto alla memoria della povera Clorinda Barsanti, che dorme il sonno dei giusti con la sua figlioletta Paolina. Sopra uno dei gradini per cui si accede all’interno dell’artistico tempietto, sta seduta pensosa e malinconica una statuina di marmo, che raffigura una bimba con in mano una ghirlanda di fiori simboleggiante la figlia dell’estinta in attesa della madre. Opera davvero pregevole uscita dal valente scalpello del carrarese Ferdinando Marchetti, e che dà un grande effetto artistico all’insieme di quel chiosco mortuario costruito su disegno di Eugenio Barsanti, marito dell’estinta”. Si tratta di un documento di eccezionale importanza che ci permette di restituire la paternità della statua, di cui da tempo si era persa memoria, allo scultore Ferdinando Marchetti, il quale, a dispetto di ricerche minuziose miranti a ricostruirne l’identità, resta per il momento un artista piuttosto misterioso vista l’assoluta mancanza di altra documentazione intorno alla sua attività.

     Una traccia sembra condurre verso la figura di un Ferdinando Lodovico Marchetti, nato nella frazione di Torano nel 1843 (quindi della generazione di Carlo Nicoli, il titolare del maggior laboratorio artistico del marmo operante a Carrara alla fine dell’Ottocento), segnalato in un documento del 1862 tra gli allievi più promettenti dell’Accademia di Carrara (ottiene vari riconoscimenti nei concorsi di fine anno). Il suo nome tuttavia non compare mai nei repertori degli scultori e dei titolari dei laboratori artistici del marmo carraresi della seconda metà dell’Ottocento e dunque la statua della Bimba che aspetta rimane per il momento l’unica sua opera accertata. Forse emigrò per un periodo di tempo in Germania, dove c’era molta richiesta di maestranze qualificate. Il paese di Torano ha dato i natali ad almeno due illustri artisti: lo scultore purista Pietro Tenerani e lo scultore barocco Domenico Guidi. Quest’ultimo, ormai anziano, per testimoniare l’attaccamento al proprio luogo di origine mandò in dono da Roma una statua di S. Apollonia che si può ammirare nella chiesa del paese. I “maestri di cava” di Torano, esperti nell’estrazione e nella prima sbozzatura del marmo, erano già famosi al tempo di Michelangelo. Il nonno, il padre e lo zio di Ferdinando Marchetti erano cavatori, per cui si può dire di lui ciò che scrisse un biografo di Tenerani a proposito della naturale predisposizione all’arte dello scolpire dimostrata da tanti giovani carraresi: “non raro avviene che fra quei paesani, nati e cresciuti in mezzo al marmo, taluno si senta inclinato all’arte della scultura o dell’ornato, perché la materia offre la cagione agli uomini di lavorarla”.

     L’edicola metallica, che versava in condizioni fatiscenti, è stata ricostruita intorno al 1990 dalla ditta di Alberto Gragnani. Rispetto alla struttura originaria, di cui ci resta una fotografia scattata nel 1989 da Bianca Maria Scirè e pubblicata sulla rivista “Viareggio Ieri”, si evidenzia la perdita della balaustra divisoria con la fila di tombe adiacenti all’edicola che accentuava il senso di raccoglimento emanante dalla piccola statua funeraria.

     Il committente Eugenio Barsanti, nato a Viareggio nel 1863 e morto ottantottenne nel 1951, fu un personaggio molto conosciuto nella società viareggina dell’epoca, sia per la sua attività politica (fu l’esponente di maggior spicco del partito repubblicano viareggino), sia per il suo mestiere di fabbro ferraio, in cui egli profuse il suo spiccato talento artistico che è ben evidenziato nell’edicola funeraria di famiglia costruita su suo disegno. Rimasto presto orfano del padre, imparò presumibilmente il mestiere dallo zio Giuseppe Barsanti, titolare di un’importante bottega di lavorazione artigiana del ferro che aveva sede in Darsena. Suo cugino Amedeo, anch’egli fabbro ferraio e carpentiere, era celeberrimo all’epoca per aver costruito molti degli chalet lignei della Passeggiata, tra cui il Café Chantant Eden.

     Nel 1884 Eugenio Barsanti sposò Clorinda Beretta, nata a Viareggio nel 1865, ultima di sette sorelle morte tutte in giovane età (specchio dell’alto tasso di mortalità dell’epoca), da cui ebbe sei figli. La primogenita, Paolina, morì nel 1887 a soli due anni: la statuetta raffigurante un putto orante – celebre e replicatissimo modello dello scultore fiorentino Luigi Pampaloni, attivo nella prima metà dell’Ottocento – oggi conservata all’interno dell’edicola, fu probabilmente realizzata per la tomba della bambina.

     Clorinda Beretta morì non ancora ventinovenne nella primavera del 1894 e fu sepolta accanto alla prima figlia; l’anno dopo fu portata a compimento l’edicola. Ecco come Enrico Sisco raccontò l’avvenimento in una corrispondenza da Viareggio sul giornale lucchese “Il Progresso” del 19 maggio 1894: “Mercoledì della scorsa settimana, dopo pochi giorni di inenarrabili angosce, sopportate con stoica rassegnazione, moriva per rara pustola maligna sul fronte (forse provocata, secondo una testimonianza degli eredi, dalla caduta da una bicicletta costruita appositamente per lei dal marito Eugenio, n.d.r.), ribelle a tutti i mezzi della scienza e dell’arte, la signora Clorinda Barsanti, moglie del signor Eugenio Barsanti, nostro concittadino e assessore comunale. La infelice non aveva che 28 anni ed ha lasciato all’inconsolabile ed affezionato consorte una immensa eredità di affetti compendiata in 5 teneri figlioletti. La rarità del caso e le compassionevoli e tristi circostanze che l’accompagnarono commossero tutto il paese e i molti amici e conoscenti ebbero tutti parole di commiserazione e di profonda condoglianza per il pover’uomo, a cui l’inesorabile destino aveva tolto ad un tempo l’adorata compagna e la madre delle sue creature. La sera del giovedì successivo ebbe luogo il trasporto funebre al nuovo cimitero... Immensa la folla accalcatasi dietro il feretro contornato da tutti gli amici del marito dell’estinta ché anch’esso volle accompagnare all’ultima dimora la sua donna... Vennero pronunciate a nome di tutti gli amici del Barsanti brevi ma commoventissime parole che fecero piangere tutti specialmente quando si ricordò al marito l’ultima raccomandazione fattagli dall’estinta che riguardava i piccoli figli...”

     Secondo il racconto unanime degli eredi e degli amici del committente, per la statua della Bimba che aspetta posò la terzogenita, anch’essa di nome Paolina, che all’epoca aveva sei anni. Si pensi a questa figura femminile che, nel corso degli anni – adolescente, donna matura, anziana signora – continua a vedere sé stessa bambina, ritratta nella statua di marmo, come confinata da una sorta d’incantesimo crepuscolare nel periodo forse più doloroso della propria esistenza. E in effetti, nel ricordo di chi la conobbe, la figura di Paolina Barsanti è sempre stata avvolta in un velo di malinconìa. Ricamatrice di professione, dopo un lungo soggiorno a Milano, morì a Viareggio nel 1971.

     Eugenio Barsanti – “con il pizzo ben curato sul viso scarno che si infiamma al verbo mazziniano e l’inseparabile papillon rosso al collo”, come lo ricorda Leone Sbrana nel suo libro Viareggio, momenti di storia e di cronaca – va annoverato con Cesare Riccioni, Luigi Salvatori, Narciso Fontanini, Umberto Giannessi, Francesco Lenci, tra i maggiori esponenti della democrazia laica viareggina del primo Novecento. Temperamento estroso e passionale, fu tra i promotori dell’Università popolare, alla cui direzione fu chiamato il pittore Plinio Nomellini, e animatore di circoli d’ispirazione razionalista e massonica. Amico personale di Lorenzo Viani, sostenne economicamente il suo viaggio a Parigi; dopo la morte dell’unico figlio maschio, Amedeo, travolto da un tram a Milano, il pittore gli fece trovare il ritratto del giovane che è ancora in possesso degli eredi. Memorabili i suoi interventi oratori nelle pubbliche piazze e in consiglio comunale. Acceso anticlericale, nel 1910 fece parte della coalizione formata da liberali radicali, repubblicani, socialisti e dal gruppo democratico-cristiano seguace delle idee di Romolo Murri, facente capo al giornale “La Realtà”, che uscì vincitrice nelle elezioni amministrative nei confronti della lista formata da clericali, monarchici e liberali moderati, ma non esitò a dimettersi insieme agli altri rappresentanti repubblicani per protesta contro il gruppo democratico-cristiano che ostacolava la realizzazione del programma perché ritenuto troppo laico. Interventista durante la prima guerra mondiale, con l’avvento del fascismo si ritirò dalla vita pubblica ma continuò ad essere controllato dal nuovo regime come risulta dagli archivi della prefettura giudiziaria. Una delle sue ultime battaglie la condusse in veste di presidente dell’“Associazione per la tutela degli interessi della Vecchia Viareggio”, fondando nel 1923 un comitato che si battè invano contro il progetto di erezione di un nuovo mercato in Piazza Cavour (firmato da Alfredo Belluomini), a cui aderirono alcuni dei maggiori intellettuali e artisti viareggini dell’epoca. L’ottuagenario Eugenio Barsanti ebbe la ventura di veder realizzati i propri ideali politici e in occasione della vittoria referendaria della Repubblica sulla Monarchia tenne un acclamato intervento in cui ritrovò inalterata la foga oratoria dei suoi giorni migliori. Non è facile chiarire il motivo per cui Eugenio Barsanti si rivolse proprio a Ferdinando Marchetti per eseguire la statua della bimba: ma conoscendo il personaggio e la delicatezza della commissione è facile supporre che alla base ci fossero delle comunanze ideali e un’amicizia personale.

     Alcune testimonianze orali di informatori nati nei primi anni del secolo attestano che nel periodo immediatamente precedente la prima guerra mondiale il mito della Bimba che aspetta si era in gran parte formato. Il pellegrinaggio è documentato già pochi anni dopo la costruzione dell’edicola. Emblematica in questo senso è una lettera del 1901 della cittadina Emilia Biancalana, conservata al Centro Documentario Storico del Comune di Viareggio, la quale si rivolge al Sindaco, Cesare Riccioni, chiedendo il permesso di collocare sulla tomba dei propri defunti una balaustra di marmo, in quanto, scrive, “essendo accosto alla tomba di cristallo del sig. Eugenio Barsanti, la gente per visitarla passa sopra le pietre dei miei defunti, con pericolo di romperle, come difatti già per due volte l’hanno infrante”.

     La statua della Bimba che aspetta ha mantenuto fino ad oggi una straordinaria capacità attrattiva anche se le testimonianze orali si sono fatte sempre più labili e frammentarie. Allo stato attuale delle ricerche, il corpus delle tradizioni popolari è così configurato. Sul motivo originario della bimba che attende la madre ormai morta si sono innestate alcune aggiunte o varianti – a volte narrate come fatti realmente accaduti, altre volte con la consapevolezza che si tratta di rielaborazioni leggendarie – fino alla creazione di veri e propri micro-racconti in cui l’assunto di base finisce per arricchirsi di un’infinità di particolari che celano talvolta profonde motivazioni inerenti sia alla sfera individuale che collettiva. Appartiene al nucleo degli avvenimenti raccontati come veritieri la versione secondo la quale la bimba sarebbe anch’essa morta mentre attendeva la madre. Una variante diffusa è che la bimba sia stata ritrovata priva di vita proprio sugli scalini dell’edicola dove soleva restare in raccoglimento dopo la morte della mamma. Un’informatrice narra di un incontro avvenuto intorno al 1980 presso l’edicola con un’anziana signora la quale si presentò come una parente della famiglia Barsanti – di cui non è stato possibile accertare l’identità – e raccontò che la bimba era stata così raffigurata perché approssimandosi la morte della madre e volendo evitare alla piccola il momento del trapasso la nonna disse alla nipotina di andare a sedersi sulle scale perché avrebbe visto la mamma passare con gli angeli per andare in cielo. Curiosa e significativa per le implicazioni sociali che sottende è la versione che descrive la bimba come una sorta di Cenerentola perseguitata dalla matrigna che un giorno viene trovata morta sulla tomba della mamma dove si recava ogni giorno a cercare conforto. Non mancano neppure storie ammonitrici della più pura tradizione popolare come quella secondo cui la bimba, disobbedendo alla mamma, si era allontanata da casa, la madre per il dolore era morta e la bimba, pentita e affranta, era ritornata da lei troppo tardi. Vi sono poi i racconti di natura dichiaratamente fiabesca come quello secondo cui la bimba a forza di attendere la madre sulla soglia dell’edicola si trasformò in statua.

     Nel loro insieme, le voci e le storie fiorite intorno al motivo della Bimba che aspetta costituiscono delle testimonianze esemplari della condizione di estrema precarietà esistenziale del mondo femminile, che dalla fine dell’Ottocento si è protratta almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, e l’accentuato patetismo che le contraddistingue sembra voler stemperare e purificare nella commozione un sentimento ben più drammatico e disperato.

     Nel corso della ricerca si è manifestato un ulteriore enigma relativo alla scultura funeraria. Si tratta di una poesia ad essa strettamente collegata, tramandatasi oralmente fino ai giorni nostri della quale sono state raccolte una mezza dozzina di versioni più o meno frammentarie che derivano tutte con evidenza da un medesimo prototipo: una composizione di origine colta (il metro è in endecasillabi), sicuramente inserita in vecchi libri scolastici (anche se nessun informatore è stato in grado di precisarne il titolo e l’edizione). La versione più completa fino ad oggi raccolta è la seguente (si tratta di un dialogo tra la bimba e un passante):

 

Che fai bambina mia su quella porta

guardando da lontan per quella via?

Ah, se sapessi, quando la fu morta

se la portaron via di là la mamma mia

e mi han detto che di là deve tornare

e son qui da tanti anni ad aspettare!

Cara bambina mia ma tu non sai

che i morti al mondo non ritornan mai?

Tornan nel vaso i fiorellini miei,

tornan le stelle, tornerà anche lei!

 

     Le analogie con la scultura della Bimba che aspetta sono evidenti. Si deve a tali analogie se la poesia è stata collegata con la scultura o il rapporto di filiazione è più diretto? E in questo caso: è la poesia ad aver ispirato la scultura oppure – ipotesi assai più remota, ma suggestiva – è vero il contrario?

     A queste domande è stato possibile rispondere solo recentemente, in virtù di un’indagine serrata condotta con l’ausilio di internet (grazie a Jolanda Restano del sito Filastrocche.it per la preziosa segnalazione). I versi corrispondono infatti a una poesia di Giovanni Prati (1814-1884) dal titolo Tutto ritorna, che anticipa di circa mezzo secolo la scultura della Bimba che aspetta e può quindi a tutti gli effetti esserne stata fonte di ispirazione. Nel tempo è stata addirittura musicata da numerosi compositori: tra le versioni più suggestive c’è quella composta nel 1887 da Giovanni Tebaldini, cronologicamente vicina alla data di realizzazione della statua, mentre ancora nel 1931 è attestata una composizione di Luigi Ferrari Trecate, a testimonianza di un persistente interesse per il motivo letterario ed esistenziale della bimba che aspetta la madre ormai morta.

     Curiosamente a livello popolare la poesia di Prati, la cui versione tramandatasi oralmente è forse più bella e incisiva dell’originale, è spesso attribuita ad Ada Negri e quindi post-datata di moltissimi anni. Uno dei tanti misteri che rendono ancora più affascinante la storia dell’ormai centenaria bambina di marmo. Una storia che, nelle sue complesse ramificazioni, ha attraversato tutto il Novecento per giungere fino ai giorni nostri, facendo assurgere la piccola statua a icona dell’immaginario affettivo della comunità.